Al momento stai visualizzando Soli in una folla digitale: il vero volto della denatalità  

Soli in una folla digitale: il vero volto della denatalità  

Michela Papagno 

L’11 luglio, Giornata Mondiale della Popolazione, ci offre l’occasione per riflettere su una delle sfide più urgenti del nostro tempo: la denatalità.  

Mentre i numeri continuano a dipingere un quadro allarmante – con 206.000 nati in meno nel 2024 rispetto al 2008 secondo i dati Openpolis – emerge con sempre maggiore chiarezza un fattore spesso sottovalutato: la solitudine sociale come causa profonda di questo declino demografico. 

I dati ISTAT 2024 confermano una tendenza inarrestabile: la combinazione di maggiore longevità e persistente denatalità accentua di anno in anno l’invecchiamento della popolazione. Al 1° gennaio 2024, l’Italia conta 36 milioni e 866 mila residenti adulti e giovani, diminuiti di quasi 2 milioni di individui negli ultimi anni. 

Ma dietro questi numeri si nasconde una realtà più complessa. Secondo la ricerca Ipsos 2024, tra le cause principali della denatalità gli italiani identificano stipendi troppo bassi (70%), instabilità lavorativa e, in misura crescente, l’isolamento sociale che caratterizza sempre più le relazioni interpersonali. 

La solitudine come epidemia silenziosa 

La solitudine sociale che attraversa l’Italia contemporanea non è semplicemente un problema individuale da relegare alla sfera privata, ma rappresenta un fenomeno sistemico di portata nazionale che sta letteralmente ridefinendo il tessuto dei rapporti umani nel nostro Paese. Stiamo assistendo a una trasformazione antropologica profonda, dove l’isolamento non è più un’eccezione ma sta diventando una condizione sempre più diffusa, con conseguenze devastanti sulla capacità delle persone di immaginare e costruire un futuro familiare. 

I dati disponibili, per quanto possano apparire frammentari, dipingono un quadro allarmante. Secondo le ricerche Adnkronos del 2023, tra gli adolescenti italiani il 5-15% sperimenta forme significative di solitudine, ma gli esperti concordano sul fatto che queste percentuali rappresentino solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più vasto e sotterraneo. La realtà è che molti giovani non riconoscono nemmeno la propria condizione di isolamento, avendola normalizzata come parte integrante della vita moderna. 

Il rapporto ISTAT 2025 aggiunge un elemento cruciale a questo scenario: il 23,1% degli italiani si trova a rischio povertà o esclusione sociale, con punte drammatiche del 39,8% nel Mezzogiorno. Questo dato non è solo una statistica economica, ma rappresenta una bomba sociale che colpisce duramente proprio quella fascia d’età che dovrebbe costituire il futuro demografico del paese. Quando un giovane su quattro vive in condizioni di precarietà sociale ed economica, la prospettiva di formare una famiglia diventa un lusso irraggiungibile piuttosto che una naturale evoluzione della vita adulta. 

La solitudine sociale che affligge l’Italia contemporanea affonda le sue radici in trasformazioni strutturali che hanno investito il paese negli ultimi decenni, creando un cocktail esplosivo di fattori interconnessi. 

Le trasformazioni urbane e il disfacimento del tessuto sociale  

Le città italiane hanno subito una metamorfosi radicale che ha letteralmente sventrato i tradizionali luoghi di aggregazione e socializzazione. I centri storici si sono trasformati in musei a cielo aperto per turisti, mentre le periferie sono diventate dormitori anonimi dove le persone si rifugiano dopo giornate lavorative sempre più lunghe e stressanti. I ritmi frenetici della vita urbana moderna, scanditi da orari di lavoro flessibili che in realtà significano disponibilità totale, hanno contribuito a frammentare quei legami comunitari che per generazioni avevano rappresentato la spina dorsale della società italiana. 

I giovani si trovano spesso confinati in appartamenti monolocali o in case condivise con sconosciuti, dove la convivenza è ridotta a una mera questione economica piuttosto che a un’opportunità di costruzione di relazioni significative. Gli spazi pubblici di aggregazione – dalle piazze ai circoli ricreativi, dai cinema di quartiere ai bar storici – sono progressivamente scomparsi o hanno cambiato natura, sostituiti da centri commerciali dove l’interazione sociale è mediata dal consumo. 

L’instabilità economica e lavorativa che caratterizza l’esperienza di milioni di giovani italiani non rappresenta solo un ostacolo alla pianificazione familiare in termini economici, ma crea un senso di insicurezza esistenziale che si traduce in una vera e propria incapacità di costruire relazioni stabili e durature. Quando non si sa dove si sarà tra sei mesi, quando il contratto scade continuamente, quando si è costretti a spostarsi da una città all’altra inseguendo opportunità lavorative precarie, diventa impossibile coltivare quelle relazioni profonde che sono il prerequisito per immaginare un progetto di vita condiviso. 

La precarietà lavorativa genera inoltre un senso di inadeguatezza personale che mina l’autostima e la fiducia nelle proprie capacità di essere partner affidabili. Molti giovani rimandano indefinitamente l’idea di una relazione seria perché si sentono “non ancora pronti” economicamente, intrappolati in un circolo vizioso dove la stabilità lavorativa diventa un prerequisito per la stabilità affettiva. 

La digitalizzazione: sempre connessi ma sempre soli  

Paradossalmente, l’era della connessione digitale ha prodotto una generazione più isolata di quanto l’Italia abbia mai conosciuto. I social media, pur offrendo teoricamente infinite opportunità di contatto, hanno in realtà sostituito le relazioni autentiche con interazioni superficiali e performative. I giovani italiani trascorrono ore sui social network, coltivando centinaia di “amicizie” virtuali che non si traducono mai in relazioni reali, significative, capaci di offrire quel supporto emotivo e quella intimità che sono essenziali per il benessere psicologico. 

Le app di dating, che dovrebbero facilitare gli incontri, hanno invece trasformato le relazioni in una sorta di mercato dove le persone vengono ridotte a profili da scorrere velocemente, contribuendo a una cultura dell’usa e getta che rende sempre più difficile investire tempo ed energie nella costruzione di legami profondi. La facilità con cui si può “passare al prossimo” ha paradossalmente reso più difficile impegnarsi seriamente con qualcuno. 

Questo scenario di solitudine diffusa non è solo un problema sociale, ma rappresenta una delle cause principali della crisi demografica italiana. Quando le persone non riescono a costruire relazioni significative, quando si sentono isolate e insicure, quando mancano le competenze emotive per gestire l’intimità e la costruzione di un progetto di vita condiviso, la prospettiva di avere figli diventa remota. Non si tratta solo di una questione economica, ma di una vera e propria crisi della capacità di immaginare e costruire il futuro insieme ad altri. 

L’Assenza di educazione affettiva: un vuoto formativo critico 

Una delle cause più trascurate e sottovalutate della crisi relazionale che attraversa l’Italia è l’assenza sistemica di un’educazione affettiva e alle relazioni nel sistema scolastico nazionale. Mentre gran parte dei paesi europei hanno integrato da tempo programmi strutturati di educazione emotiva e relazionale nei loro curricoli, l’Italia continua a navigare in un vuoto formativo che ha conseguenze devastanti sulla capacità dei giovani di costruire relazioni mature e durature. 

Il dato più sconcertante è che, secondo una ricerca di Tuttoscuola del marzo 2025, il 70% degli italiani sostiene l’idea che l’educazione alle relazioni debba diventare una materia obbligatoria nelle scuole. Questo ampio consenso popolare si scontra però con una resistenza istituzionale che ha radici profonde nella cultura politica e educativa italiana, dove l’educazione affettiva viene spesso percepita come un’intrusione nella sfera privata delle famiglie piuttosto che come un diritto fondamentale degli studenti. 

La contraddizione è evidente: mentre Save the Children Italia sottolinea come “educare alla sessualità e all’affettività significa promuovere la conoscenza e la consapevolezza delle proprie emozioni per riconoscerle e gestirle”, il sistema scolastico italiano continua a delegare questa formazione cruciale al caso, lasciando che i giovani imparino a navigare il complesso mondo delle relazioni attraverso tentativi ed errori spesso dolorosi. 

Il ritardo italiano diventa ancora più evidente quando si analizza il panorama europeo. Paesi come la Danimarca, i Paesi Bassi, la Germania e la Francia hanno integrato da anni programmi obbligatori di educazione emotiva e relazionale, riconoscendo che le competenze affettive sono altrettanto importanti di quelle cognitive per lo sviluppo di cittadini equilibrati e capaci di costruire società coese. 

In Danimarca, ad esempio, l’educazione emotiva è parte integrante del curriculum nazionale dal 1970, con risultati misurabili in termini di benessere psicologico e stabilità relazionale. La Francia ha introdotto l’educazione affettiva e sessuale come materia obbligatoria nel 2001, mentre la Germania ha sviluppato programmi specifici per ogni fascia d’età, dal kindergarten alla scuola secondaria. 

L’assenza di educazione affettiva strutturata nel nostro sistema scolastico non è solo una lacuna pedagogica, ma un vero e proprio buco nero formativo che produce conseguenze devastanti, manifestandosi in modo drammatico e spesso irreversibile nella vita adulta dei giovani italiani. 

Immaginate di dover guidare un’auto senza aver mai preso una lezione di guida: è esattamente quello che accade ai giovani italiani quando si trovano ad affrontare i conflitti relazionali. Arrivano all’età adulta completamente impreparati a gestire quelle tensioni e quelle divergenze che inevitabilmente emergono in ogni relazione significativa, dai rapporti di coppia alle amicizie profonde. 

Non avendo mai imparato tecniche di comunicazione assertiva, strategie di negoziazione o metodi di risoluzione costruttiva dei conflitti, la loro reazione istintiva è quasi sempre la fuga. Al primo litigio serio, alla prima incomprensione profonda, alla prima crisi di coppia, tendono a chiudere tutto e ricominciare da capo con qualcun altro. È come se avessero imparato che i conflitti sono sempre distruttivi, mai costruttivi, e che l’unica soluzione sia evitarli completamente. 

Questo meccanismo di fuga sistematica crea un circolo vizioso devastante: una successione infinita di relazioni brevi e superficiali che non permettono mai lo sviluppo di quella intimità profonda, di quella conoscenza reciproca autentica che è il prerequisito fondamentale per immaginare e costruire un progetto di vita condiviso. Come si può pensare di mettere al mondo dei figli se non si è mai riusciti a superare insieme una crisi di coppia? 

La mancanza di strumenti per comprendere e gestire le proprie emozioni crea barriere invisibili ma potentissime nell’instaurare rapporti profondi e significativi. È come se i giovani italiani vivessero in un mondo emotivo nebuloso, dove i sentimenti sono percepiti come forze misteriose e incontrollabili piuttosto che come esperienze umane normali che possono essere comprese, elaborate e condivise. 

Molti giovani adulti italiani si trovano letteralmente “analfabeti” dal punto di vista emotivo: non sanno riconoscere con precisione i propri sentimenti, non hanno le parole per comunicarli efficacemente al partner, non possiedono gli strumenti per gestire le emozioni intense che emergono nelle relazioni intime. È come se parlassero una lingua emotiva frammentaria e imprecisa, che rende quasi impossibile quella comunicazione profonda che è il fondamento di ogni relazione duratura. 

Questa incapacità di navigare il proprio mondo interiore si traduce inevitabilmente in una paura dell’intimità: se non comprendo le mie emozioni, come posso condividerle con qualcun altro? Se non so gestire i miei sentimenti, come posso costruire qualcosa di stabile con un’altra persona? L’intimità diventa così non un’opportunità di crescita e condivisione, ma una minaccia da evitare. 

Senza un’educazione strutturata che decostruisca pregiudizi e stereotipi, i giovani italiani apprendono modelli relazionali spesso dai media o da esempi familiari non sempre positivi. È come se la loro educazione sentimentale fosse affidata a Netflix, Instagram e TikTok piuttosto che a un percorso formativo serio e strutturato. 

I risultati sono prevedibili e devastanti: dinamiche tossiche vengono normalizzate, stereotipi di genere dannosi vengono interiorizzati come verità assolute, aspettative irrealistiche sulle relazioni vengono alimentate quotidianamente. I giovani crescono pensando che l’amore debba essere sempre facile e spontaneo, che i conflitti siano sempre segno di incompatibilità, che la gelosia sia romantica, che il controllo sia protezione. 

Questo perpetua un ciclo vizioso dove diventa sempre più difficile costruire relazioni paritarie e soddisfacenti, basate sul rispetto reciproco e sulla crescita comune. Come si può immaginare di formare una famiglia stabile quando i modelli relazionali di riferimento sono quelli dei reality show o delle serie TV, dove i rapporti sono sempre drammatici, instabili e destinati a finire male? 

L’assenza di educazione affettiva non è solo un problema pedagogico, ma ha un costo sociale enorme.  

Una generazione che non sa gestire le emozioni, comunicare efficacemente e costruire relazioni stabili è una generazione che difficilmente riuscirà a formare famiglie solide e a contribuire alla ripresa demografica del paese. Il legame tra educazione affettiva e denatalità è diretto: senza le competenze relazionali necessarie, i giovani rimandano la formazione di coppie stabili e, di conseguenza, la decisione di avere figli. 

Quando diventare madre significa pagare un prezzo troppo alto 

Uno degli aspetti più drammatici e spesso taciuti della crisi demografica italiana riguarda la condizione delle donne che, nonostante tutto, scelgono ancora di diventare madri. È come se il paese mandasse un messaggio contraddittorio: da un lato lamenta la mancanza di nascite, dall’altro punisce sistematicamente chi decide di fare figli. I dati de La Nazione parlano chiaro e sono impietosi: il divario occupazionale tra padri e madri con almeno un figlio minore resta abissale, quasi 29 punti percentuali nel 2024. Non è solo una statistica, è il ritratto di una società che scarica sulle donne il peso della riproduzione e poi le abbandona a se stesse. 

Immaginate di tornare al lavoro dopo aver dato alla luce vostro figlio e di scoprire che, agli occhi dei colleghi e dei superiori, siete diventate improvvisamente meno affidabili, meno dedicate, meno “serie” professionalmente. È quello che accade quotidianamente a migliaia di neomamme italiane, che si trovano intrappolate in un isolamento professionale che ha dell’incredibile. 

Le neomamme spesso si ritrovano escluse dai progetti importanti, saltate nelle promozioni, guardate con sospetto quando devono lasciare l’ufficio per emergenze legate ai figli. È come se la maternità fosse diventata una sorta di handicap professionale, un marchio che le rende automaticamente meno competitive sul mercato del lavoro. La discriminazione è sottile ma pervasiva: nessuno lo dice apertamente, ma tutti sanno che “ora ha altre priorità”. 

Questo isolamento professionale si intreccia con una mancanza di supporto strutturale che ha dell’assurdo. L’Italia continua a mancare di servizi adeguati all’infanzia, costringendo le madri a scelte impossibili tra carriera e famiglia. È come chiedere a qualcuno di correre una maratona con una gamba sola: tecnicamente possibile, ma umanamente devastante. 

Il periodo post-partum, già delicato dal punto di vista emotivo per ragioni fisiologiche e psicologiche, diventa ancora più difficile in assenza di reti di supporto adeguate. Molte neomamme si ritrovano sole in casa con un neonato, senza sapere a chi rivolgersi per dubbi, paure, momenti di sconforto. È come se la società si aspettasse che l’istinto materno risolva automaticamente ogni problema, ignorando che anche la maternità è un’esperienza che si impara e che richiede supporto. 

Nonostante i miglioramenti legislativi di cui tanto si parla, i congedi parentali italiani rimangono insufficienti rispetto agli standard europei, sia in termini di durata che di sostegno economico. È come se il paese dicesse: “Sì, puoi fare figli, ma non aspettarti che ti aiutiamo davvero”. I padri, in particolare, si trovano con congedi ridicolmente brevi che non permettono loro di condividere realmente il carico della cura, perpetuando un modello che scarica tutto sulle donne. 

La mancanza di asili nido e servizi per l’infanzia accessibili costringe molte donne a rinunciare al lavoro o a rimandare indefinitamente la maternità. È un paradosso crudele: un paese che invecchia e ha bisogno di bambini, ma che non offre le strutture necessarie per accoglierli. Molte famiglie si ritrovano a spendere cifre astronomiche per servizi privati o a fare affidamento sui nonni, quando ci sono e quando sono disponibili. 

La cultura aziendale italiana rimane poi largamente ostile alle esigenze familiari. Molte aziende mantengono ancora orari rigidi, scarsa flessibilità, e una mentalità che vede la presenza fisica in ufficio come sinonimo di produttività. È come se il mondo del lavoro fosse rimasto fermo agli anni ’50, quando le donne stavano a casa e gli uomini lavoravano dall’alba al tramonto. 

La depressione post-partum e l’ansia materna sono spesso aggravate dall’isolamento sociale. In Italia, questo fenomeno è amplificato dalla mancanza di iniziative strutturate per creare reti di sostegno tra neomamme. Molte donne si ritrovano sole con i loro dubbi, le loro paure, le loro difficoltà, senza sapere che quello che stanno vivendo è normale e condiviso da migliaia di altre madri. 

I servizi specializzati nella salute mentale materna sono ancora insufficienti e mal distribuiti sul territorio. È come se il paese ignorasse che la salute mentale delle madri è fondamentale non solo per loro, ma per il benessere dei bambini e delle famiglie. Manca inoltre una preparazione adeguata alla genitorialità che vada oltre gli aspetti medici della gravidanza: si insegna come partorire, ma non come essere genitori. 

Le conseguenze demografiche: un circolo vizioso devastante 

Questa solitudine sociale non solo riduce la propensione a formare famiglie, ma influisce anche sulla qualità delle relazioni esistenti, creando un circolo vizioso che alimenta la crisi demografica. I giovani italiani, vedendo le difficoltà che vivono le coppie con figli, tendono a posticipare sempre più la convivenza e il matrimonio, spesso per paura di impegni che non si sentono preparati ad affrontare. 

L’incertezza relazionale e l’isolamento sociale riducono la percezione della genitorialità come esperienza desiderabile e realizzabile. Avere figli non viene più vissuto come una naturale evoluzione della vita adulta, né tantomeno la maternità viene vista come qualcosa di “cool”, come ha affermato la senatrice Mennuni nel 2023. È più un salto nel vuoto che rischia di compromettere tutto: carriera, relazioni, benessere psicologico. 

Le coppie che si formano spesso mancano degli strumenti per superare le difficoltà che inevitabilmente emergono, portando a separazioni che scoraggiano ulteriori tentativi di formazione familiare. È come se ogni fallimento relazionale confermasse l’idea che sia meglio rimanere soli piuttosto che rischiare di soffrire. 

La denatalità italiana non è solo una questione economica o di politiche familiari, ma il sintomo di una società che ha perso la capacità di creare legami autentici e duraturi. La solitudine sociale, l’assenza di educazione affettiva e la mancanza di supporto per le neomamme sono tre facce della stessa medaglia: un paese che ha dimenticato l’importanza delle relazioni umane come fondamento della vita sociale. 

In questa Giornata Mondiale della Popolazione, è tempo di riconoscere che investire nelle relazioni umane non è solo un imperativo morale, ma una necessità demografica. Solo ricostruendo il tessuto sociale, educando alle emozioni e sostenendo concretamente chi sceglie di diventare genitore, l’Italia potrà invertire la tendenza demografica e costruire un futuro più umano e sostenibile. 

Il cambiamento deve iniziare da una presa di coscienza collettiva: la denatalità non è un destino inevitabile, ma il risultato di scelte politiche e sociali che possono essere modificate. È tempo di agire, prima che la solitudine diventi il tratto distintivo di un’intera generazione. 

FONTI 

Fonti Istituzionali e Accademiche 

ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) 

  • Bilancio demografico mensile gennaio-febbraio 2025 
  • Rapporto Annuale ISTAT 2025 – Capitolo 2: Popolazione e società 
  • Audizione Commissione Transizione demografica (1 aprile 2025) 
  • Comunicato stampa Indicatori demografici Anno 2024 
  • Camera dei deputati (2024), Educazione all’affettività e alla sessualità – Documento parlamentare 
  • Save the Children Italia (2024), Educazione sessuale e affettiva: perché è importante a scuola 
  • Associazione Culturale Pediatri (ACP-Italia) (2024), L’importanza dell’educazione emotiva nelle scuole 

Centri di Ricerca 

  • CENSIS (2024), “La società italiana al 2024” – Sintesi Fenomenologico 
  • Adnkronos (2023), Ricerca sulla solitudine tra gli adolescenti (5-15% con forme significative di solitudine) 

Fonti Giornalistiche e di Divulgazione 

  • Tuttoscuola (2025), Educazione affettiva: il 70% degli italiani la vuole a scuola 
  • EduNews24 (2025), Educazione emotiva e relazionale: sfida urgente per scuola e famiglia 
  • Secondo Welfare (2025), “Italia: poche nascite e meno figli per donna” 
  • Openpolis (2025), Analisi “In Italia continuano a diminuire le nascite” 
  • Pagella Politica (2025), “La popolazione italiana è diminuita anche nel 2024” 
  • Nostrofiglio.it (2025), Educazione sentimentale e sessuale nelle scuole 
  • Ristretti.org (2025), Educazione affettiva materia obbligatoria a scuola 
  • Eywa Divulgazione (2025), Educazione affettiva: crescere nelle emozioni e nelle relazioni 

Fonti Specialistiche 

  • Centro Santagostino (2024), Educazione affettiva: perché è utile 
  • Unobravo (2024), Educazione all’affettività in bambini e adolescenti 

Autore

Lascia un commento