Al momento stai visualizzando Disturbi del comportamento alimentare: curarsi con la fotografia

Disturbi del comportamento alimentare: curarsi con la fotografia

Nel 2013 la pioniera della fototerapia Judy Weiser ha pubblicato il volume “FotoTerapia”. Per Weiser, curarsi attraverso la fotografia va oltre lo strumento della macchina fotografica: inizia tutto dai sensi, principalmente dalla vista, grazie alla quale riusciamo a immagazzinare l’80% degli stimoli sensoriali che ci arrivano. L’immagine che abbiamo di noi stessi e nel mondo si crea grazie all’esperienza del nostro corpo che si muove e si trasforma nel mondo. Pensiamo, percepiamo e richiamiamo alla memoria ricorrendo a mappe concettuali prettamente iconiche, e proprio con la fotografia è possibile ritrovare ciò che pensiamo, sia in maniera conscia sia inconscia.

Weiser dà una grandissima importanza al linguaggio non verbale: su questo si basa il mondo delle Arti Terapie. Grazie a strumenti quali musica, disegno, danza e fotografia, lǝ paziente stessǝ decodifica le informazioni ricevute attraverso il processo creativo e si dà la libertà a ogni individuo di usare il mezzo espressivo più congeniale.

Weiser divide il processo fototerapeutico in due momenti: inizialmente osserva cosa accade aǝ paziente nel processo attivo, poi studia cosa accade quando questi inizia ad assorbire, elaborare e sintetizzare. Il nucleo principale che sta alla base della Fototerapia è il processo naturale di auto-esplorazione e sviluppo personale che la fotografia come medium può fornire, come una sorta di specchio tra il nostro mondo interno e la realtà che ci circonda. 

La fotografia ha una duplice valenza, essendo definibile come “composizione fatta di luce”. Questa definizione basta affinché possa essere considerata automaticamente come forma d’arte; inoltre, essendo una specie di specchio della memoria dell’Io fotografico, rientra anche negli strumenti da utilizzare in campo terapeutico. Qualunque scatto fotografico contiene al suo interno due fattori: il soggetto documentato e l’impressione del fotografo. 

Terapie con la fotografia nei disturbi del comportamento alimentare

Cosa succede quando il fotografo è anche il soggetto della fotografia (come nel caso dei nostri odierni selfie)?

È interessante, a questo punto, portare alla luce il lavoro di Fabio Piccini, medico di Zurigo, che si dedica da molti anni allo studio degli autoritratti fotografici per la terapia di disturbi gravi della personalità e disturbi del comportamento alimentare. Piccini si è formato sul modello junghiano secondo il quale, riassumendo, ogni individuo è organizzato in strati e ognuno di questi corrisponde a una diversa personalità del Sé. Quando una di queste personalità inconsce non trova spazio per esprimersi, si rivela attraverso i sogni, i sintomi psicologici e psicosomatici e i motti di spirito. Sulla base di questa teoria, Piccini ha sperimentato su diversi pazienti del “Centro per la terapia dei Disturbi del Comportamento Alimentare” di Cesena, di cui è direttore, il metodo della auto-fototerapia, per cui ogni paziente poteva fare diversi ritratti di se stessǝ rappresentando in ciascuno una parte diversa della sua personalità.

In “Io (non) mi vedo così”, Fabio Piccini ci spiega nel dettaglio l’uso della fotografia in un setting terapeutico con pazienti affettɜ da Disturbi del Comportamento Alimentare. Alla base dei “DCA”, sembra esservi un profondo malessere psichico e la persona che soffre di questo disturbo tenta inconsciamente di mettere in atto un processo di auto-cura che consisterebbe in “abbuffate”, restrizioni alimentari e tentativi di compenso come iperattività fisica e assunzioni di farmaci non prescritti. Il malessere, secondo Piccini, “affonderebbe le proprie radici in un’immagine di sé fortemente deficitaria, associata ad una fragilità emozionale che renderebbe impossibile a queste persone lo sviluppo di una identità adulta matura”.

In un setting terapeutico si utilizzano fotografie biografiche e autoritratti fotografici che possono essere modificati e manipolati in modo tale che lǝ paziente riesca a cambiare “l’essenza” della propria vita. Paradossalmente, il punto centrale della fototerapia è anche il suo più grande limite: infatti le persone di solito non accettano e non riconoscono il proprio Sé ritratto. Nonostante viviamo in un mondo pieno di specchi, la nostra immagine è totalmente autocostruita e facciamo fatica a riconoscerla nella realtà. Riuscire a modificare questa immagine significa pertanto correggere la percezione che lǝ paziente ha di sé e, poiché questo è uno dei fondamenti dell’identità del Sé, tale atto sarà inevitabilmente e profondamente terapeutico. In modo specifico, sui disturbi dell’alimentazione, l’esperienza di Anna Fabroni ci aiuta a capire l’importanza della fototerapia in questo ambito:

“Credo che il rapporto con il corpo sia a 15 anni devastante, a 30 sei rassegnata forse, comprensione è un po’ rassegnazione. In cerca di un’identità che tinge le gote di rosso e raccoglie i capelli in un fiore. L’anoressia è stata la mia identità: “sono Anna, sono anoressica” Attraverso il mio corpo mutilato da ogni vezzo, ho trovato il mio posto nel mondo.”

In “Alla ricerca della propria identità”, appendice del libro “Ri-vedersi” di Fabio Piccini, Anna Fabroni parla della propria esperienza con l’autoritratto fotografico. Iniziò a lavorare come modella e questo la costringeva a essere guardata spesso con gli occhi degli altri, non riconoscendosi nelle fotografie che le venivano scattate. Successivamente iniziò a fotografare il proprio corpo non più come “modello”, bensì come oggetto reale. Iniziò a fotografarsi per riprendersi nei momenti più bui della propria anoressia e ne fece un progetto che fu allo stesso tempo fotografico e autoterapeutico, “Costole” (2005), che divenne un vero e proprio libro fotografico di autoritratti scattati tra il 2001 e il 2004.

Come lei stessa scrive:

“Il caos emotivo trova ordine in un’inquadratura, una foto infatti può essere più reale di un’immagine allo specchio. Sapere che noi e solo noi vedremo gli scatti aiuta molto a non sentire il peso del giudizio [….]. Nell’autoritratto io trovo la meraviglia di potermi presentare al mondo attraverso la mia visione. I concetti di bello e brutto si trasformano in bene e male, in amore o odio verso me stessa; in comprensione più o meno profonda di quello che mi sta accadendo”

(A. Fabroni, Costole, 2001/2004)
Oggi è dimostrato che l’intervento più efficace attualmente disponibile per la cura dei DCA è la prevenzione del disturbo dell’immagine corporea. Secondo un recente studio canadese, fino all’84% delle ragazze di età compresa entro i sedici anni non si piace o ritiene il proprio corpo inadeguato agli standard di bellezza proposti dai media. Pertanto, non è difficile immaginare come l’autoritratto fotografico possa essere usato per evitare che almeno una parte di queste ragazze trasformino questa insoddisfazione in un disturbo dell’immagine corporea ed eventualmente in un DCA. Trattandosi tuttavia di uno strumento non ancora validato tra i protocolli terapeutici per questo tipo di patologie, l’autoritratto deve essere sempre incluso in un piano terapeutico multi-dimensionale o comunque calibrato sulle specificità individuali deǝ paziente, prevedendo gli eventuali effetti negativi.

Revisionato da: Stefano Letizia e Guia Bonariva

Fonti

-A. Fabroni, Fotografie, Noi: io e me, PSICOART, 2014, https://www.psicoart.unibo.it/anna-fabroni-fotografie/

-A. Fabroni, Alla ricerca della propria identità, in F. Piccini, Ri-vedersi, Red edizioni, Milano, 2008.

-F. Piccini, Io (non) mi vedo così, Nuove Arti Terapie, V. 13, 2011.-J. Weiser, FotoTerapia. Tecniche e strumenti per la clinica e gli interventi sul campo, Milano, Franco Angeli, 2017.

Autore

Lascia un commento