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Si può fare, quindi è giusto? Una riflessione sulla decostruzione in chiave intersezionale

L’uomo è un animale sociale”, affermava Aristotele nel IV sec a.C., quindi tende per natura a riunirsi con altri individui e a vivere in società strutturate, basate su delle norme sociali, leggi non scritte interiorizzate e a cui tuttз si attengono: “il mondo gira cosìohio state jersey fsu football jersey custom ohio state jersey Ohio State Team Jersey justin jefferson lsu jersey ohio state jersey rowan university new jersey custom ohio state jersey johnny manziel jersey penn state jersey deion sanders jersey penn state jersey asu jersey custom made football jerseys asu jersey”, si sente ripetere. In un contesto in costante e velocissimo cambiamento, sempre più caratterizzato da una polarizzazione del pensiero sul piano politico e ideologico, basata su una conoscenza spesso disinformata, può accadere che le persone confondano ciò che è legittimato con qualcosa di necessariamente giusto, mancando di senso critico di fronte a problemi complessi che impattano in maniera rilevante sulla vita di tutta la collettività.

Nonostante lo studio dell’uomo in società si divida in discipline e correnti che possono concentrarsi sull’indagine relativa all’individuo piuttosto che alle masse, credo che si possa concordare sul fatto che la società influenza lə singolə e che lo stesso valga al contrario: ognunз quindi è responsabile della realtà collettiva di cui fa parte.

La società odierna pone in una posizione privilegiata gli uomini, bianchi, cisgender, eterosessuali, allotipici, abili, ricchi, magri e con un buon livello di istruzione, ed è strutturata affinchè questa gerarchia venga mantenuta attraverso l’uso di retoriche e strumenti discriminatori. Secondo il pensiero di Franco Palazzi1 si può quindi dividere il mondo in due gruppi: quello deз oppressorз e quello deз oppressз. La parte opprimente si aspetta e pretende la “buona educazione degli oppressi2, ovvero un’accettazione (anche forzata) della propria condizione e una mancanza totale di rivendicazione della propria dignità. 

Prima di proseguire vorrei aprire una parentesi sul concetto di potenzialità, traendo spunto dal ragionamento di Maurizio Viroli3 sull’oppressione nel rapporto servə-padronə: non è necessario che un padronə – oppressore – applichi violenza sul servə – oppressə4 – per essere considerato tale, ma è sufficiente che sia in una posizione di potere che lə consente, se e quando lo ritenete adeguato, di esercitarla. Questa potenzialità si manifesta anche oggi in innumerevoli momenti, anche quotidiani, e contribuisce a porre le persone soggette a determinate caratteristiche in una situazione di subordinazione ingiusta e violenta che può prendere molti nomi: razzismo e xenofobia, omolesbobitransfobia, misoginia e abilismo, per citarne alcuni. Questi però non sono sempre esplicitamente violenti o necessariamente evidenti, ma si annidano sotto forma di micro aggressioni persino in quelli che generalmente dovrebbero essere considerati safe places come le associazioni, la famiglia, il luogo di istruzione o le forze dell’ordine, ambienti in cui ci si dovrebbe sentire, appunto, al sicuro. Manifestandosi in modo velato, può quindi risultare difficile agli occhi di una persona non esercitata individuare tali eventi, rendendo per questa ragione la decostruzione un concetto tanto importante: smontare e ricostruire la propria esperienza di vita alla luce di una nuova consapevolezza. 

Il decostruzionismo è una corrente filosofica che si afferma per la prima volta in occidente negli anni ‘70 del Novecento grazie al francese Jacques Derrida, ispirato dal concetto di Destruktion di Heidegger: questa prospettiva non ha una precisa definizione, ma si limita a spronare una molteplice interpretazione della realtà sia culturale che sociale e suppone quindi l’inesistenza di un giudizio cosiddetto oggettivo, puntando a un pensiero della differenza in continuo mutamento che possa sempre rinnovarsi attraverso l’esplicitazione delle contraddizioni e dei pregiudizi latenti che vengono adottati più o meno consapevolmente. Come si può facilmente intuire si tratta quindi di un’impostazione analitica potenzialmente applicabile a qualunque aspetto della vita. 

Questo concetto viene introdotto nella corrente femminista già dagli stessi anni ‘70 da due donne che per prime aprono il femminismo a un discorso intersezionale: Audre Lorde – militante caraibica nera, donna, lesbica e femminista – e Carla Lonzi – prima critica d’arte, poi fondatrice di uno dei primi gruppi femministi radicali italiani e decostruttrice delle varie forme del potere tradizionale -. Ho scelto queste due donne perché, seppur provenienti da percorsi estremamente diversi, hanno utilizzato lo stesso mezzo per maturare il proprio pensiero: la decostruzione.

Audre Lorde (18 febbraio 1934 – 17 novembre 1992) è stata una prolifica poetessa, che ha usato  la scrittura come mezzo di attivismo: sebbene si tenda ad associare la poesia ad un qualcosa di aulico ed etereo, Lorde dichiara “Di tutte le forme d’arte, la poesia è la più economica. […] La poesia è stata lo strumento espressivo principale delle donne di colore della classe lavoratrice.5, affermando quindi la rabbia e la volontà politica del suo lavoro che ha inevitabilmente caratterizzato le sue produzioni. 

Un tema particolarmente caro a Lorde è quello della differenza: durante la sua infanzia la madre, Linda Gertrude Belmar, ha sempre cercato di nascondere la loro differenza di razza in quanto persone caraibiche nere a New York nel silenzio, privando le figlie di spiegazioni legittime sui comportamenti discriminatori che subivano. Con il trascorrere del tempo questi sono mutati e Lorde ha iniziato a maturare la consapevolezza delle sue diversità, sentendosi allo stesso tempo partecipe ed esclusa dei gruppi di cui faceva parte: in un gruppo di nere, lei era quella lesbica; in un gruppo di lesbiche, lei era quella nera. Così affermerà:

«Generalmente oggi nel movimento delle donne, le bianche si focalizzano sulla loro oppressione in quanto donne e ignorano le differenze di razza, di preferenza sessuale, di classe e di età. Si fa finta, sotto la coperta della parola sorellanza, che ci sia una omogeneità di esperienza che nella realtà non esiste.»6

Attaccando il concetto di “sorellanza” accusa i gruppi e i movimenti femministi caratterizzati da questa agognata omogeneità di rifiutarsi di riconoscere ed eliminare le distorsioni intrinseche nelle definizioni delle differenze, che determinano i comportamenti escludenti e discriminatori. In questo passaggio Lorde chiama in causa la decostruzione: è infatti convinta che sia necessaria per permettere il passaggio da una differenza disumanizzante a una differenza emancipatrice.

Riappropriandosi delle differenze le persone discriminate potranno quindi sfruttarle come risorsa e unirsi nella lotta per la giustizia e la libertà di tuttз: con il suo pensiero Audre Lorde ha illuminato la via dell’intersezionalità nell’attivismo statunitense.

«There is no such thing as a single-issue struggle because we do not live single-issue lives».7

Carla Lonzi (6 marzo 1931-2 agosto 1982) nasce come critica d’arte e tutto il suo pensiero sui  rapporti di potere ha origine proprio dalla riflessione sulla gerarchia che viene a crearsi tra lə criticə d’arte e l’artista a seguito dell’istituzionalizzazione del ruolo deə primə, che avrebbe quindi ora il diritto di determinare cosa è arte. Lonzi è convinta che l’arte non sia un’adesione a dei canoni e che non necessiti della legittimazione deə criticə, ma che debba essere il semplice atto creativo e autentico dell’artista. Nei primi anni Sessantama si affaccia al femminismo grazie all’incontro con Carla Accardi, pittrice femminista con cui stringe un sodalizio che durerà per una decina d’anni. La Lonzi esprimerà la sua critica alla critica dell’arte attraverso il progetto Autoritratto, cioè l’insieme di conversazioni avute con diversз artistз (tra cui Accardi è l’unica donna) che Lonzi raccoglie e pubblica, nelle quali cerca di abbattere la barriera istituzionale imposta tra criticə e artista. In questo momento Lonzi considera la differenza sessuale come quello strumento politico che può rendere l’arte un canale di espressione creativa e autonoma per le donne. 

Negli anni successivi però il suo pensiero muta radicalmente, arrivando ad accusare l’arte di essere un’istituzione intrinsecamente patriarcale, insinuando “l’impossibilità di accedere a una forma di liberazione attraverso gli strumenti della cultura, [che accusa] di contribuire sistematicamente alla subalternità, sia concreta che simbolica, delle donne8. Per questa ragione sceglierà di non concentrare il suo lavoro sulla produzione artistica femminista, che Lonzi considererà anch’essa schiava dello stesso modello di supremazia e di – seppur diversi – canoni, che contraddistinguono l’arte non femminista, determinando così la fine del sodalizio con Accardi.

L’arte è quindi profondamente compromessa ed espressione del patriarcato, tale da necessitare di un processo di decostruzione radicale e senza compromessi. Affronta il problema scrivendo e militando con e per le donne, esortando quelle che perpetuano ancora la cultura patriarcale a intraprendere un percorso di autonomia intellettuale ed esistenziale attraverso la deculturalizzazione (o “atto di incredulità”): questo processo consiste nel delegittimare tutte quelle ideologie che perpetuano le forme di subalternità, tra cui la cultura.

«Nessuno a priori è condizionato al punto da non potersi liberare, nessuno a priori sarà così non condizionato da essere libero. Noi donne non siamo condizionate in modo irrimediabile, solo che non esiste nei secoli un’esperienza di liberazione espressa da noi» (Lonzi 2010).

Queste due donne sono esemplari e tutt’oggi attuali per spiegare la trasversalità del concetto di decostruzione. Certamente l’uso che ne hanno fatto può spaventare e indurre la supposizione che sia difficilmente applicabile in chiave informale e quotidiana; attualmente è più semplice di quanto possa sembrare. Voglio esortare tuttз a interrogarsi profondamente sulle proprie scelte e a decostruire le proprie idee, per liberarci dai costrutti sociali e dalle discriminazioni che moltissimз di noi subiscono, in un incessante processo che qualcunə ha iniziato prima di noi e che non saremo noi a concludere.

Nella speranza di essere riuscita a rendere accessibile al più ampio numero di persone questo concetto così sottinteso e sottovalutato, vi invito ad associarvi e a scrivere nei commenti se volete ulteriori approfondimenti!

Bibliografia:

  • Valeria Mercandino, “Carla Lonzi. Deculturizzazione e coscienza femminista”, Università degli studi di Verona, 2017.
  • Franco Palazzi,  “La politica della rabbia – per una balistica filosofica”, nottetempo, 2021
  • Francesca R. Recchia Luciani e Iulia Ponzio, “Teorie femministe e saperi di genere – Nel segno di Audre Lorde” n.11 da “Postfilosofie – rivista di pratica filosofica e di scienze umane”, Università degli Studi di Bari Aldo Moro, 2018
  • Audre Lorde, “Poetry Is Not a Luxury” in “Chrysalis: A Magazine of Female Culture”, no. 3, 1977
  • Audre Lorde, Sister Outsider. Essays and Speeches, Trumansburg, The Crossing Press, 1984
  • Maurizio Viroli, “La libertà dei servi”, Laterza, Roma-Bari 2010
  1. Franco Palazzi, dottorando in filosofia all’Università di Essex, autore di “La politica della rabbia – per una balistica filosofica” ↩︎
  2. Wolf Bukowski ↩︎
  3. Maurizio Viroli, saggista autore di “La libertà dei servi” ↩︎
  4. Maurizio Viroli, la libertà dei servi, laterza, roma-bari 2010 ↩︎
  5. Audre Lorde, “Poetry Is Not a Luxury”, cit. pp.26-27 ↩︎
  6. A. Lorde, Sorella outsider, trad. it. cit., p. 193., in “Age, Race, Class, and Sex: Women Redefining Difference;”, 1980 ↩︎
  7. A. Lorde, Learning from the 60s, in Sister Outsider, Crossing Press, Berkeley 2007, p. 138 ↩︎
  8. Valeria Mercandino, “Carla Lonzi. Deculturizzazione e coscienza femminista”, Università degli studi di Verona, 2017. ↩︎

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